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Immagine del redattoreGiacinto Binetti

Ma quale bellezza salverà il mondo?

Aggiornamento: 28 dic 2018

Se lo domandava Ippolit ne "L'Idiota" di Fëdor Dostoevskij, in proposito alla celebre frase attribuita ma mai pronunciata dal principe Myskin. Se lo domandano in molti, in questi giorni, in merito ad un tema che sta animando il dibattito cittadino della realtà di provincia in cui vivo e svolgo il mio lavoro.


I fatti: il parroco della Chiesa di Sant'Antonio da Padova, a Foggia, Padre Roberto Nesta, ha accolto la proposta della comunità neocatecumenale della Parrocchia di rimuovere il grande crocifisso bronzeo opera del francescano Fra Guglielmo Schiavina, per sostituirlo con un'elefantiaca corona misterica di quasi 200 mq che andrebbe ad occupare l'intera parete del presbiterio.


Fotoinserimento dell'opera

Non è questa la sede per addentrarsi in considerazioni d'ordine strettamente spirituale e teologico. Come cattolico mi oppongo ogni qual volta si paventi la rimozione di un Crocifisso, ma il vezzo di staccare i crocifissi dai muri è solo il sintomo di un malessere che altri sapranno spiegare ed argomentare molto meglio di me. Qui mi interessa, se possibile, aprire un dibattito in cui mi piacerebbe coinvolgere innanzitutto i miei colleghi; sono peraltro piuttosto sorpreso che la questione non li abbia ancora raggiunti in maniera sostanziale.


L'individuale opinione sul "bello" da parte di un Parroco, o di una ristretta parte - quella neocatecumenale - della sua comunità, può essere sufficiente a consentire di procedere ad un'azione di trasformazione così profonda di un'opera di architettura, anche quando non sono i vincoli di legge a correre in soccorso della conservazione?


E quando questi vincoli interverranno, che cosa ci sarà rimasto da conservare?


È importante esprimersi, perché fa parte del nostro ruolo sociale, come professionisti. Un giorno, il compianto Prof. Giovanni Guazzo mi disse: "Se noi architetti rinunciamo al nostro ruolo di intellettuali, che cosa ci rimane?"


Quando sono stato informato della questione, ho deciso che valesse la pena di condurre su di essa una riflessione attenta, approfondendo la reale valenza architettonica di Sant'Antonio, perché emergesse la stretta correlazione che esiste tra idea dello spazio, decorazione, rappresentazione ed arredo sacro. Purtroppo l'edificio è scarsamente documentato, e l'autore stesso rientra nella folta schiera degli architetti dimenticati. Eppure non dev'essere un caso se l'archivio privato dell'arch. Pacanowski, conservato a Roma dai suoi eredi, è stato dichiarato, già nel lontano 1999, di notevole interesse storico.


Mi sono quindi avvalso delle poche fonti a disposizione: articoli dell'epoca, forniti gentilmente da Geppe Inserra, autore di Lettere Meridiane, su cui è stata pubblicata una prima versione della mia analisi; testimonianze da parte dei figli di Pacanowski, brevi scritti informativi, e la mia consuetudine con la chiesa, che ho avuto modo di guardare prima come adolescente, poi come fedele, e infine come architetto. Ringrazio inoltre Renato Matteo Imbriani che ha dato vita a questo dibattito e che mi ha fornito alcune delle fotografie incluse in questo articolo. Per il restante materiale fotografico, nonché per le notizie di cui non ero a conoscenza per evidenti motivi anagrafici, ringrazio tutti i componenti del gruppo Giù le mani dal Crocifisso.


Spero che questo scritto possa presto diventare la monografia che credo meriti l'opera. Mi recherò infatti a Roma per consultare l'archivio privato dell'autore, dopo aver inoltrato richiesta alla Soprintendenza Archivistica per la Regione Lazio.


Colgo inoltre l'occasione per invitare chiunque sia interessato a coadiuvarmi nell'opera di ricerca, o che desideri condividere informazioni sul progetto e sul cantiere (foto d'epoca, scritti, articoli di giornale), a contattarmi all'indirizzo e-mail giacinto.binetti@gb-arch.it.


L'AUTORE: DAVIDE PACANOWSKI

Quella di cui stiamo parlando non è una chiesa "qualsiasi", uno dei tanti pezzi di architettura chiesastica post-conciliare che impesta le città italiane. L'opera porta una firma importante nel panorama dell'Architettura moderna italiana, ma che non appartiene al gotha dei grandi nomi del Razionalismo nostrano: il polacco naturalizzato italiano Davide Pacanowski.


Il nome di Pacanowski si lega strettamente al Mezzogiorno, in particolar modo a Napoli. È nel capoluogo partenopeo, infatti, che si concentrano le sue opere più note, realizzate principalmente nel Dopoguerra. Tra queste, la Villa Crespi (1955) gli valse la pubblicazione su "Epoca" in un articolo dal titolo "Le ville più belle del mondo", oltre all'esposizione, insieme ad altre sue opere partenopee, alla Mostra internazionale di Architettura a San Paolo del Brasile.

Villa Crespi - Napoli

Nella sua carriera, spuntano luoghi in cui non ci aspetteremmo di trovare dell'Architettura "d'autore": Secondigliano, Campobasso, Termoli, Casacalenda, Boiano, Benevento, Termoli (qui, in particolar modo, con interventi di edilizia residenziale pubblica legata ad INACASA) e, appunto, Foggia.


L'ALLIEVO DI CORBU

C'è un'altra caratteristica che contraddistingue l'architetto italo-polacco dai nomi più altisonanti dell'Architettura italiana degli Anni Trenta, e poi dell'immediato dopoguerra. Lontano dal fermento del Razionalismo italiano, del Gruppo 7 e del MIAR - lontano ma non troppo, dato che partecipò al concorso per il Palazzo della Civiltà Italiana all'E42 insieme a Domenico Filippone - tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta Pacanowski era all'estero, prima a Londra e poi a Parigi, dove divenne allievo di Le Corbusier, con cui collaborò come ingegnere specializzato nel cemento armato. Insomma, se Terragni era "il più grande" e Libera "il più razionalista" (definizioni comunque enormemente discutibili), Pacanowski è stato probabilmente il più vicino, anche professionalmente, al Maestro.


È proprio l'afflato corbusiano ad animare l'opera che Pacanowski viene a realizzare in questa calda ed assolata città del nord della Puglia. Non l'Esprit Nouveau delle ville degli Anni Venti, ma quello plastico del Convento di Santa Maria de la Tourette, dell'Unité d'Habitation di Marsiglia, di Chandigarh e, soprattutto, della Cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp. Quell'afflato, insomma, che ha reso Le Corbusier il primo, grande poeta del béton brut.


Notre-Dame du Haut, Ronchamp

C'è da sottolineare un punto: non è un caso che due dei quattro esempi citati siano architetture religiose. Condivido, a tal proposito, le parole di Vittorio Sgarbi: interpretare il tema della chiesa è terribilmente difficile, perché difficile è esprimere spazialmente un concetto di spiritualità senza che il gesto dell'architetto diventi il solo protagonista. In questo hanno fallito in molti, compresi - a mio modesto avviso - tanti nomi illustri, scadendo in muscolari esibizioni di onanismo della forma. Le Corbusier no, e nemmeno Pacanowski.


UNA TENDA NEL DESERTO URBANO


Vista dal lato della palazzina della canonica

Figlia di una lunga gestazione iniziata nel luglio del 1966, la chiesa, voluta dall'allora vescovo di Foggia, Mons. Giuseppe Lenotti, vide la posa della sua prima pietra il 24 giugno del 1972. L'opera, con le difficoltà realizzative comportate soprattutto dall'ardita soluzione tettonica della copertura, richiese ben sette anni di cantiere, e venne aperta al culto il 13 giugno del 1979, in occasione della festività del Santo francescano cui è intitolata.


La citazione della Cappella di Notre-Dame du Haut è evidente anche a chi non abbia dimestichezza con la Storia dell'Architettura del XX secolo. D'altro canto, la personalità e lo spirito del progettista emergono, senza essere intrappolati dall'impegnativa citazione.


Qui il tema figurativo, ribadito dallo stesso autore, è quello biblico della tenda nel deserto. Ed in effetti, situata in quella che all'epoca della costruzione era l'estrema periferia sud-orientale della città di Foggia, il cosiddetto Quartiere San Lorenzo, questa chiesa doveva proprio apparire una tenda nel deserto, un rifugio per i fedeli ai margini del contesto urbano.


Sant'Antonio da Padova (Foggia) - Vista aerea

La composizione si gioca sull'uso di due materiali, due texture diverse, che conciliano con grande armonia la tradizione costruttiva dell'architettura sacra foggiana con la formazione culturale e tecnica di Pacanovski: i conci sghembi di scabro carparo leccese della superficie muraria che avvolge lo spazio e il cemento armato faccia vista della copertura, un elemento scultoreo che sa al contempo di pietra, di legno, di tessuto. Proprio la copertura è il grande elemento plastico che caratterizza e disciplina l'intera opera: un continuum senza soluzione tra il terreno da cui emerge, il grande pilone che la sostiene sul lato opposto e la superficie che si arrampica verso il cielo, fino ad appoggiarsi sull'enorme setto, ancora in calcestruzzo armato faccia vista e irrigidito da tre poderosi contrafforti, che corrisponde al fondo del presbiterio. Ad essi si aggiunge il grès marrone della pavimentazione e il peperino degli elementi liturgici


Siamo quindi oltre il gioco dei volumi puri sotto la luce, è lo spazio plastico, definito dalle sue geometrie, dalla sostanza e dalla materia delle superfici che lo delimitano, ad essere protagonista della composizione. A Pacanovski non serve altro, non decorazioni, non orpelli. Solo spazio e superfici.


Pianta del tempio - da "Dalle Origini..." Comuni e Parrocchie dell'Arcidiocesi di Foggia-Bovino, Pompeo Scopece (1999)

Seguendo un'assialità tutt'altro che scontata, vista la geometria dell'oggetto architettonico, l'immenso portone centrale in alluminio anodizzato color bronzo permette di affacciarsi alla spazialità dell'interno attraverso le sue vetrate colorate. L'aula liturgica è connessa all'esterno fisicamente da questo grande squarcio a tutta altezza, dunque, ma anche concettualmente, tramite la stessa trama muraria. La parete, infatti, è un grande nastro diviso in tre parti, che si avvolge intorno allo spazio interno, matericamente identico dentro e fuori, con la sua trama, dettata dai conci lapidei, che si avvicina a quella di un tessuto, interrotta internamente solo dagli squarci dei confessionali, e che poi sale senza soluzione di continuità fino a sfiorare la copertura, separata da essa - qui ancora citando il maestro Le Corbusier - dal taglio di luce che separa tetto e pareti. L'aula liturgica è quindi priva di finestrature, al contrario di quanto avviene a Ronchamp, eppure estremamente luminosa.


Vista d'insieme dal sagrato

La seconda superficie che delimita il volume destinato al culto è, ovviamente, la copertura. Dall'interno, essa svela finalmente la sua natura di grandiosa opera di ingegneria, e foriera delle maggiori difficoltà, sia in fase progettuale che realizzativa, come testimoniano le cronache dell'epoca. La vasta sala liturgica (circa 600 mq) è sormontata da un poderoso graticcio di travi che generano un singolare sistema di cassettoni a losanghe dalle proporzioni variabili: la sincerità architettonica dell'elemento strutturale riporta alla lezione di Pier Luigi Nervi (cfr. con il Palazzetto dello Sport di Roma, realizzato tra il 1956 e il 1957 per le Olimpiadi capitoline del 1960) che Pacanowski, ingegnere per studi e architetto per vocazione, doveva di certo conoscere bene. Lo stesso criterio di sincerità architettonica spinge Pacanowski a denunciare l'assenza di funzione strutturale dei grandi setti, proprio attraverso la lama di luce che li separa dalla copertura.


Dettaglio della copertura

Dei nastri che circondano lo spazio dedicato al culto, dipartendosi dal grande squarcio dell'ingresso, quello sul lato opposto della palazzina che ospita la canonica si frammenta e si sovrappone una prima volta a circa due terzi della sua lunghezza, ove è collocato un ingresso laterale, oltre ad un taglio vetrato verticale che li percorre per l'intera altezza.


Vista laterale

Sul lato opposto, invece, il taglio soggiunge molto prima, molto più vicino all'ingresso principale. È il punto più basso della copertura, dove viene collocata, in corrispondenza di un ingresso laterale che oggi viene utilizzato correntemente per entrare nella chiesa, un avancorpo cilindrico ove trova spazio la cappellina che ospita la statua del Santo di Padova. Tra il corpo centrale del tempio e l'avancorpo cilindrico trova spazio l'accesso laterale alla chiesa.


Vista centrale dall'altare. Si noti, sulla sinistra, l'interruzione del grande setto e il varco d'accesso alla cappella laterale

L'ingresso alla cappella

I grandi setti che avvolgono la sala convergono quindi verso la parte di fondo del presbiterio. La superficie muraria qui è arretrata, in modo da permettere l'accesso del celebrante direttamente dall'attigua sagrestia. Ma l'arretramento consente anche di denunciare lo schema tettonico dell'intero edificio, ed enfatizzare ulteriormente la cesura, già esplicitata dalla differenza materica, tramite le ombre proiettate dalle pareti in conci lapidei. Viene a crearsi dunque una sorta di abside dalla curvatura idealmente collineare a quella delle pareti adiacenti, ma traslata indietro di alcuni metri e simile ad una diga, ospitante la sede del celebrante in peperino bocciardato, così come lo sono l'altare poco più avanti, il battistero, originariamente dotato di un getto d'acqua radente che ne bagnava le superfici, e l'ambone, tutti opera dello stesso Pacanowski e, purtroppo, sostituiti o modificati nel corso degli anni.


Prospettiva centrale dall'ingresso. Si noti la testa del pilastro che emerge dal setto murario sulla destra

È su questa parete che trova posto l'imponente crocifisso di Fra Guglielmo Schiavina, un'opera che suscitò grande scalpore all'epoca della realizzazione della chiesa, con la sua mano schiodata dalla croce: una rappresentazione inusuale, con il braccio proteso sì, verso l'Altissimo, ma anche, in qualche modo, verso i fedeli. Un Cristo crocifisso, sofferente e benedicente insieme, che accoglie i figli nella casa del Padre.


Il Crocifisso del Presbiterio

NON È BELLO CIÒ CHE È BELLO...

Sembra proprio che ai parroci foggiani (e forse non solo a quelli foggiani) ogni tanto venga voglia di ristrutturare. E allora, proprio come improvvidi padroni di casa, si lanciano in ardimentosi progetti di rinnovamento, dimenticandosi troppo spesso che la "casa" non è la loro. Che si tratti - Dio non voglia - di ansia di lasciare il proprio segno, talvolta tragico, sulla storia di una chiesa e di un quartiere, o di sincera quanto indesiderabile voglia di rinnovamento (come se al Santo Padre venisse voglia di tingere di violetto le colonne di Piazza San Pietro), risulta difficile dimenticare, sempre rimanendo nel periplo foggiano, i curiosi fascioni e il fondale gialli spatolati realizzati attorno all'altare centrale della chiesa progettata dall'architetto romano Luigi Vagnetti e intitolata alla Beata Maria Vergine Madre della Chiesa.


In questa sede, ci limiteremo ad approfondire alcuni dei vari episodi di trasformazione che la chiesa di Sant'Antonio da Padova ha subito nel corso degli anni, a testimonianza di un approccio, reiterato nel corso degli anni, di totale disinteresse rispetto al valore storico ed architettonico dell'opera. Non voglio attribuire questo modus operandi a una qualche forma di mala fede, quanto piuttosto ad una mancanza di consapevolezza, non meno grave, ma perlomeno curabile.

Chiunque sia transitato per il quartiere San Lorenzo ricorderà la realizzazione, sulla grande superficie nuda della copertura, di una gigantesca pisside 'stilizzata', che ebbe l'invidiabile risultato di trasformare la poetica tenda nel deserto in qualcosa che assomigliava più che altro ad un eliporto. Unica concessione alla storia dell'edificio, il verde di sfondo, credo più che altro scelto per motivi di analogia ai paramenti sacri del tempo ordinario, ma che richiama vagamente il rame che sarebbe dovuto essere posato, nell'idea originaria, come finitura del tetto.


Fantasiose rappresentazioni in copertura

Nemmeno gli arredi sacri sono rimasti indenni dal furor renovationis dei Frati. Ne hanno fatto le spese l'ambone, integrato con una curiosa composizione lapidea che riprende le geometrie dell'edificio, e il battistero, che perde il suo getto d'acqua radente e guadagna una discutibile icona di ispirazione - indovinate un po' - neocatecumenale.


L'ambone

Il battistero e il suo nuovo maquillage

Anche la grande nicchia sulla destra dell'altare, realizzata per la collocazione di un organo ed unico campo murario liscio nella composizione di conci lapidei, ha scatenato nei Francescani quella che sembra a tutti gli effetti una crisi acuta di horror vacui. Il campo murario della nicchia, viene quindi tamponata con un'indecifrabile composizione figurativa (nota del redattore confuso, perché realizzare una parete decorata per poi appenderci davanti un quadro? Qualcuno me lo spieghi, per cortesia), interrotta da una veletta curvilinea, forse ispirata alla ben più maestosa vela del presbiterio, che funge da paravento alla statua lignea della Madonna, quasi che, per qualche oscura ragione, alla Vergine dovesse essere oscurata la vista dell'altare.


La nicchia che, attualmente, ospita il tabernacolo

È qui che, dopo varie peregrinazioni, trova attualmente posto il tabernacolo, che evidentemente il nuovo corso ecumenico ritiene opportuno occultare per non turbare la sensibilità di quanti intendono rendere le chiese delle sale fluide buone, alla bisogna, per spettacoli teatrali, concerti e conferenze dei Radicali (e anche oggi l'accusa di criptolefebvrianesimo l'abbiamo portata a casa).



Il tabernacolo realizzato secondo il disegno di Pacanowski.

La prima modifica apportata al tabernacolo originale, con l'apposizione del rivestimento in vetro colorato (cfr. con foto precedente)

Ma bastavano già i quadri e le icone che via via sono stati appesi alle pareti a turbare lo spirito del luogo e dello spazio: quelle pareti sono state pensate per essere spoglie, scarne, nude. La loro forza risiede nella ininterrotta trama del materiale. Se Pacanowski avesse voluto decorarle, si sarebbe dato allo stucco veneziano. Sembra quasi che ai Frati la nuda severità della loro chiesa metta un po' di inquietudine.


Vista d'insieme dell'interno. Si notino, da sinistra a destra, il fonte battesimale in configurazione originale, l'ambone, il tabernacolo e la nicchia ove quest'ultimo è attualmente conservato (cfr. con le foto precedenti)

Una menzione d'onore merita anche l'obliterazione del béton brut del poderoso cordolo di chiusura della maestosa copertura e del pilone troncoconico che la sorregge. Va bene proteggere le armature esposte dal copriferro eroso, ma qualcuno spieghi ai Frati che per salvaguardare il calcestruzzo ammalorato non serve cambiargli colore.


Vista dal sagrato: si noti il discutibile "ripristino" del calcestruzzo armato del pilone sulla sinistra

A quanto pare, è giunta l'ora dell'ennesimo scempio. Anche all'osservatore meno ferrato salterà all'occhio l'effetto dell'operazione: la spazialità dell'intera aula liturgica risulta stravolta dall'inserimento di questa gigantografia parietale, "un'opera mastodontica di 12 metri per 16, tutta dipinta in foglia d'oro". E, insieme ad essa, tutto l'equilibro compositivo dell'architettura, fondato come si è detto sulla delicata giustapposizione di superfici e materiali, ne esce inesorabilmente a pezzi. Sarà bella? Francamente, ci interessa poco. La chiesa, però, è un pezzo d'arte, e sinceramente ci disturba non poco che venga sconvolta dall'ennesimo conato di priapismo rappresentativo targato Kiko Arguello. Questa no, non è bellezza. E dubito che possa salvare alcunché.


A Padre Roberto Nesta, parroco della chiesa, che chiosa sibillino: «La nostra è una comunità molto povera e siamo certi che attraverso le immagini riusciremo ad avvicinare a Dio anche le persone più umili», vorrei ricordare quanto dissero all'epoca dell'inizio della grandiosa Fabbrica Padre Roberto Calzone, definitore provinciale e assistente del Terz'Ordine Francescano, e Padre Angelo Marrancino, ministro provinciale dei frati minori di Puglia e Molise:


«Sant'Antonio ha lanciato un vero messaggio sociale con la sua missione: ha affrontato energicamente il tema dell'ingiustizia: si è battuto con fervore contro i potenti del suo tempo: Ezzelino da Romano, gli usurai. Forse per questo il popolo più umile e bisognoso lo sente particolarmente vicino e gli è legato da una devozione sincera, che ha radici nell'anima.»


«Anche lo statuto della Provincia monastica suggerisce, in ossequio allo spirito di minorità francescana, la cura di parrocchie ubicate in ambienti di gente più povera e lontana dal messaggio di Cristo.»


Padre Roberto, essere una comunità povera non è un accidente. Chi ha voluto la chiesa, l'ha voluta così. Chi l'ha immaginata, plasmata, cullata nella propria mente, commuovendosi nel vederla nascere e crescere dalle fondazioni fino alla Croce che la sormonta, l'ha voluta così. Non è un caso, niente della composizione spaziale, architettonica e formale lo è; tutto risponde ad una logica che armonizza splendidamente intento spirituale, ispirazione sociale e gesto compositivo.


Le lancio una proposta: se ha a cuore il Bello (che magari non salverà il mondo, come il buon Ippolit sospettava, ma è un ottimo veicolo per un buon messaggio), chiami a raccolta la sua comunità, e proponga, al posto di questo scempio, di intraprendere un'opera conoscitiva del pezzo d'arte con cui abbiamo a che fare. E dopo, se proprio vuol fare qualcosa di "Bello", proponga ai neocatecumenali di investire il capitale che servirebbe per realizzare quell'oscenità al fine di ripristinare l'edificio secondo la grandiosità del progetto originario. Sono disposto, per questo scopo, a prestare la mia opera professionale a titolo completamente gratuito, e sono sicuro che non sarei l'unico.



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