Sono passati ormai quasi quarant'anni da quel lontanissimo 1978, in cui un ancora sconosciuto Rem Koolhaas pubblica Delirious New York, un manifesto retroattivo per Manhattan, universalmente riconosciuto come un classico dell'Architettura contemporanea.
Quando presi per la prima volta in mano quel libro, la domanda che mi è sorta spontanea è ovviamente stata: "Cos'è un manifesto retroattivo?"
"Negli anni Settanta, quando cominciai a farmi un'idea di cosa fosse l'Architettura, ancora prima di cominciare a studiarla davvero, capii che ciò che realmente contava, in Architettura, era la storia delle avanguardie in Germania, in Russia, in misura minore in Olanda, in Francia e perfino in Cina: il Paese dove esse parevano del tutto inesistenti era l'America. Mi sembrava inoltre evidente che i momenti cruciali dell'Architettura moderna si fossero tradotti sia in edifici sia in manifesti scritti da menti geniali.
L'idea del libro su New York era una specie di formula letteraria in cui in retrospettiva fornivo le prove di un movimento artistico che a mio parere non è meno importante di quello delle avanguardie.
Nel corso di un intenso lavoro, scoprii che c'erano stati contatti, per esempio, tra le avanguardie sovietiche e americane. In un certo senso, quindi, l'idea era che il mio non fosse un manifesto, ma un costrutto letterario.
Ripeto, non era inteso come uno scritto di architettura, ma piuttosto come una sorta di formula letteraria che permettesse manipolazioni"
(Gianluigi Ricuperati, Intervista a Rem Koolhaas, Festarch Notes, 1 luglio 2007)
Delirious New York era una "psicanalisi storica", un tentativo di superare l'impasse inevitabile del sistema logico in cui si erano mosse le avanguardie. In quell'epoca di spaesamento, l'intento di scrivere un manifesto può davvero apparire rivoluzionario. Eppure Koolhaas mette in atto con il suo saggio un vero e proprio ribaltamento copernicano: il "Manhattanismo" è una metafora dell'anti-moderno, è una modernità senza rivoluzione, o meglio una modernità che si avvale di una rivoluzione instaurata non come conseguenza di una sospensione del tempo storico, bensì come consecutio logica. Una rivoluzione senza rivoluzione che, in tal senso, supera la necessità lecorbusieriana di abbattere, con il passato, i centri di Parigi o New York.
Il salto è nell'accettazione della crisi come condizione esistenziale, il voler esortare una nuova generazione una nuova generazione di architetti ad elaborare il lutto della perdita dei valori ed abbracciare il "paradosso, quel paradosso che sembra costituire l'essenza stessa di Manhattan: è il luogo dove non c'è guarigione, ma, per riprendere Marco Biraghi, autore della prefazione all'edizione italiana del libro, è il malato che, mediante l'iniezione di dose controllate di veleno, si riesce "per lo meno a non farlo morire".
Questo appare il motivo per cui non venne compreso allora, soprattutto da chi stava ancora cercando "diagnosi e terapia" al male della città (e non è un caso che le Edizioni Officina di Tafuri pubblichino nel 1979 il libro "Il male della Città: Diagnosi e terapia" di Donatella Calabi), o comunque si sta abbandonando in varie forme "al cullarsi nella dolcezza del ricordo", per riprendere le parole dello stesso Tafuri, e con la possibilità di "cadere nell'ansia di individuare vie di uscita che si risolve necessariamente nel creare nubi anestetizzanti" (Manfredo Tafuri, Premessa alla Ricerca del Rinascimento. Principi, Città, Architetti - Einaudi, Torino, 1992).
Cosa ne è stato, a quattro decenni di distanza, della Manhattan delirante e naif di Koolhaas?
Franco la Cecla, autore del controverso saggio "Contro l'Architettura" (Bollati Boringhieri, Torino 2008), ci dice che New York è una città a due facce: dalla metropoli antisociale plasmata senza posa dalle Archistar (Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, Lo spettacolo dell'Architettura - Profilo dell'Archistar©, Bruno Mondadori, Milano 2003) che la considerano un prodotto, mentre Manhattan si avvia a diventare "una piattaforma costellata di monumenti architettonici da consumare come l'intero sistema di shopping a cui New York sembra pericolosamente avvicinarsi", svoltata la via, si scivola nella città "vecchia di stratificazioni" (ottocentesca, neo-egizia, decò, liberty) che continua a premere, a lottare, dal basso del marciapiede, per riportare la vertigine del grattacielo nell'orizzonte della strada, per non svanire nella vibrazione di un'immagine che si vende bene - al turismo globale gratificato dalla sua modernità - ma non può essere abitata.
Così, due città una flesh and stone, votata alla materia, alla prossimità, alla resistenza umana - l'altra lanciata sulla china dell'evanescenza dell'economia virtuale - si inseguono ma, come Achille e la Tartaruga, sembrano destinate a non raggiungersi. Quando la seconda, carica di soldi e di potere, cala sulla prima, la svuota, la umilia , la isola, come accade col progetto di allargamento della Columbia Università (potentissimo ateneo in prevalenza bianco) che, nato all'insegna della riqualificazione urbana, tracima su Harlem - storico quartiere nero ed ispanico - cancellando vecchie botteghe ed espellendo migliaia di residenti.
Simili e diverse come persone, le città, dice La Cecla, "sognano altre città" e, per restituire loro un senso, bisogna sapersi "perdere", smarrire nella trama romanzesca in cui le loro differenze si guardano e di pietra in pietra si richiamano, vedere "Venezia che sogna Istanbul che sogna Mosca". Esse rivestono un'importanza incommensurabilmente grande nelle vite dei pezzi d'umanità che le popolano; esempio ne è, continua La Cecla, che il degrado sociale inizia spesso dove inizia il degrado del tessuto urbano. Forti dello Zen di Palermo ("Palermo è cool") e delle banlieue parigine, ove il vandalismo è l'esplodere del senso di rifiuto verso la gabbia di cemento armato che isola ed emargina i suoi abitanti.
Ma esse sono minacciate da un pericolo imminente: la sconnessione attuale tra la pratica dell'architettura e la realtà dell'abitare sono colte con la stessa lucidità con cui le ultime riflessioni di Virgilio, Di Baudrillard, di Nancy lo sono sull'autoreferenzialità dell'arte, con la differenza che il potere che i Rem Koolhaas, i Frank Gehry, i Massimiliano Fuksas (e la meno star di tutti i progettisti, il più geometra di tutti gli architetti) è incommensurabilmente maggiore di quello esercitato dai Cattelan o dai Pistoletto. PErché, come dice Robert Byron - Il Virgilio di La Cecla - "gli edifici sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l'Architettura è la sua Arte."
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